non sono nato con la camicia. sono stato messo al mondo di venerdì 17. neanche il tempo di aprire gli occhi e già mi ero giocato il favore della della dea bendata. come se questo non bastasse, ero un fumatore ancora prima di nascere. mia mamma fumava in gravidanza e, nonostante io non riesca proprio ad immaginarla mordere il filtro delle sue ms gialle e spulciare riviste di sgargianti abiti premaman, mi divertiva addossarle la colpa della mia iperattività nel corso della mia adolescenza. studi affermano infatti che il fumo per un feto sia una causa di futuri disturbi in tal senso. non è una cosa di cui va fiera, né tantomeno una cosa che vorrebbe raccontassi in giro. è anche vero però che sbandierare un aneddoto familiare per sdrammatizzare un tema rognoso e contorto può essere lecito, se fatto per una giusta causa.
vorrei farvi un domanda. quanti di voi, come me, hanno rincorso e rincorrono tuttora il tempo, dimostrando così una forte inclinazione all’iperattività?
partendo dal presupposto che dubito profondamente tutti abbiano avuto una madre con il vizietto del fumo, possiamo concordare sul fatto che “rincorrere il tempo” sia un male comune, condiviso, e che l’iperattività sia solamente la più naturale e innaturale delle conseguenze. se è vero che “chi è causa del suo male pianga se stesso”, io aggiungerei “e tutti vogarono in un mare di lacrime”.
seriamente, siamo ancora capaci di fermarci? ogni tanto fa bene fermarsi: tutti lo sanno, nessuno lo fa. io per primo. negli ultimi anni infatti fare il fotografo è stata la mia priorità. è il lavoro che mi ha reso e mi rende tuttora molto felice, oltre ad essere l’unico modo che ho trovato con cui mi piacesse guadagnarmi da vivere. alla fine si tratta di questo: vivere. rivedo le modalità del mio stile di vita costantemente. rimbalzo più volte dallo stress alla noia senza un passaggio intermedio, senza un filtro che mi faccia galleggiare gradualmente dall’eccitamento alla tranquillità. lungi da me addentrarmi troppo nel dibattito su quello che dovrebbe essere il corretto stile di vita dell’uomo moderno, non sono un antropologo. però non serve nemmeno un phd per capire che la velocità a cui tutti noi viviamo è diventata insostenibile. dobbiamo darci un limite.
innanzitutto, che cos’è un limite?
il limite per me è lo spessore del manto nevoso. quelli che infatti all’inizio assumono le sembianze di brillanti, soffici e innocenti cristalli, uno dopo l’altro ci coprono, piano piano, e ci schiacciano, silenziosamente. se prima riuscivamo a muoverci agilmente, ora rallentiamo. rimaniamo soli con noi stessi, siamo fermi. il limite è quel fiocco di neve che da lenti ci rende immobili, opprimendoci. tutto quello che sto scrivendo in questo momento suona scontato, me ne rendo conto. eppure, scomodando arthur conan doyle: “il mondo è pieno di cose ovvie che nessuno si prende la briga di osservare”. in una gara in cui tutti corrono, rallentare significa rimanere indietro; fermarsi non arrivare proprio. il mondo non è poi tanto diverso da una competizione podistica. ma se potesse esserlo? non è quello di cui, sotto sotto, ci siamo accorti ultimamente? che il mondo avesse bisogno di darsi una calmata lo sapevamo tutti. che ciò avvenisse in un modo così catastrofico non lo sapeva e non lo sperava nessuno. la conseguenza è stata immediata: l’umanità ha rallentato. che fossero studenti o lavoratori, aziende private o pubbliche, singoli stati o continenti interi: tutto si è fermato.
quanti di noi però sono riusciti a stare fermi?
fermarsi e stare fermi non significano la stessa cosa. questo dubbio nasce dall’atteggiamento comune che ho osservato sui social media di riempire il proprio tempo nei modi più originali, senza contare l’effettivo numero di ore trascorse davanti ai dispositivi. sia chiaro che non mi permetto di giudicare il comportamento di nessuno, dal momento che non permetterei mai a nessuno di fare lo stesso nei miei confronti. vorrei solamente dare uno spunto di riflessione su quella che in molti hanno definito l'opportunità di “tenersi compagnia”, ma che ai miei occhi assume le caratteristiche di semplice incapacità di vivere la noia, se di noia possiamo parlare. stare sempre in movimento, inteso come una valida scusa per passarsi il tempo, implica fuggire da qualcosa, come una banda di criminali che cerca di sottrarsi alla polizia. ho la sensazione che l’umanità stia fuggendo da sé stessa. o per meglio dire, noi stiamo fuggendo dalla verità che si manifesta trasparente sotto il nostro naso: la consapevolezza dell’inconsistenza e dell’insostenibilità delle nostre vite. il fatto che tutti noi lo sappiamo e che non vogliamo fare nulla per migliorarci, penso che ci renda in parte dei criminali.
perché dunque fuggire da qualcosa anziché fermarci e affrontarlo? siamo ancora in grado di vivere con intimità la solitudine? la frase, ormai di moda, “mai siamo stati così connessi eppure così soli” mi ronza ininterrottamente nella testa: è una triste verità.
solitudine non significa essere segregati forzatamente in casa per un’emergenza sanitaria globale passando la giornata scrollando un telefono. mi dispiace, that’s not right. solitudine significa escludere ogni rapporto di vicinanza altrui, anche virtuale. solitudine significa fare i conti con se stessi, esplorare la faccia oscura della propria luna, leggersi dentro. solitudine significa prendersi e perdersi nel tempo. perché la solitudine, intesa come profonda e densa esperienza con se stessi, è una scelta. consistiamo egoisticamente in noi stessi quando tutto è normale e coesistiamo solamente quando ci fa comodo, ma insistiamo a vivere sulla superficie dell’apparenza per gli altri. “mai siamo stati così connessi eppure così soli”, ve l’ho detto, continua a ronzarmi in testa. il risultato è che la realtà perde di consistenza, i dettagli diventano una grossolana sfumatura, le forme si distorcono. essa, in poche parole, perde di significato, fino a scomparire. personalmente vivere più spesso la solitudine mi ha portato non solo a sviluppare una nuova coscienza, ma a collocarmi in uno spazio e in un tempo in una maniera piena, presente. in solitudine mi sono accorto di quanto avessi bisogno del legame che in questi anni ho stretto con la natura, di quanto essa faccia parte di me quanto io di lei. forse, stare da soli, ci aiuterebbe a sentire più nostra - e quindi a proteggere - quella natura. infatti quante persone hanno riscoperto la bellezza di una passeggiata all’aperto, nonostante ciò significasse non allontanarsi troppo da casa? quanti di noi hanno sentito la mancanza del profumo della resina o del suono del vento? quanti di noi, tra le mura di casa, hanno desiderato sdraiarsi su un prato? forse essere stati privati per così tanto tempo di quegli ambienti, ci aiuterà in futuro a salvaguardarli? è proprio qui che voglio arrivare. noi non possiamo esistere senza natura. avete mai provato a immaginare il pianeta terra che si guarda allo specchio? cosa vedrebbe? ghiacciai in scioglimento, grandi nuvole nere che tappano il cielo, popoli che combattono, altri che muoiono di fame. vedrebbe interi continenti in fiamme, altri di plastica galleggiare nell’oceano. il mondo ha bisogno ora più che mai di guardarsi allo specchio. noi abbiamo il dovere di rallentare e restare da soli, una volta ogni tanto, per capire quello che è veramente importante. perché la solitudine è anche sinonimo di crescita, perché quella è la prima, grande e naturale conseguenza della ritrovata intimità con noi stessi.