LINEA CALDA — il nostro “mondo fuori”, ma da dentro — ep.uno: LIUK

linea calda è una rubrica di interviste anonime ad atleti e professionisti del mondo della montagna.
è uno spazio, questo, in cui vengono riportate le contraddizioni, le illusioni, i no-sense che un professionista è costretto ad affrontare oggigiorno nell’industria di mamma outdoor. il tutto senza tanti fronzoli.
ai partecipanti, per garantire loro la massima libertà d’espressione, è stato cambiato il nome e il sesso; da qui il carattere anonimo del format.

ho deciso di iniziare questa rubrica perché il mondo della montagna ha preso una direzione che mi preoccupa e che credo sbagliata -sicuramente migliorabile- per noi che la frequentiamo e, ovviamente, per la natura stessa.

lamento delle forti e ingiustificate frustrazioni verso qualsiasi pensiero o azione che non reputo, anche se in minimissima parte, indirizzate verso il bene comune, qualcosa di più grande. questo podcast non verbale ha l’unico e ambizioso scopo di far riflettere.

In questo primo episodio troviamo un mio caro amico che chiameremo Liuk, come il gelato che piaceva tanto a mio papà. Anticipo solamente il ruolo di Liuk nel mondo dell’outdoor.
Liuk è uno scrittore.

Tralasciando il fatto che ti sia stato chiesto, perché hai deciso di partecipare a questa rubrica?

Sarò retorico, ma penso che il mondo outdoor sia abbastanza giovane e naif da cambiare con relativa facilità. Pensare che un’intervista possa fare la differenza forse è un po’ esagerato, ma in generale sono ottimista nel potere delle persone, almeno in questo particolare frangente. Non stiamo parlando di risolvere il problema della pace nel mondo. Progetti come questo aiutano.

Quali sono i principali problemi dell’industria dell’outdoor, ora come ora?

Ouf, rischiamo di stare qui ore. Ce ne sono tanti e non sono necessariamente collegati. Il problema principale è che il mondo outdoor è totalmente in mano alle aziende: sponsorizzazioni, editoria, film, eventi, atleti, festival, gare. Il secondo problema è che il 90 per cento di chi lavora in queste aziende non va in montagna; non solo non fa sport ma non ha nemmeno mai passato una notte in bivacco. Stiamo parlando di persone che hanno il potere di scegliere come spendere milioni di euro di budget per il marketing, e non conoscono minimamente l’ambiente in cui lavorano, in molti casi non ne sono nemmeno incuriosite. Va da sé che lavorare con queste persone e proporre progetti è molto difficile. Le scelte vengono fatte non sulla base del merito dei progetti, ma su criteri più oggettivi come la visibilità di un progetto in termini di Instagram impression, che è chiaramente un dato falsato e non convertibile nel mondo reale, ma è anche l’unica cosa che una persona ignorante (ignorante dall’etimo, senza offesa) può comprendere.

Quali sono invece le problematiche principali per un atleta professionista in questo settore oggigiorno?

Non sono un atleta professionista, ma ne conosco e frequento alcuni, per cui la mia risposta sarà una via di mezzo tra quello che mi raccontano loro e quello che vedo io. In generale mi sembra che si faccia volontariamente poca distinzione tra atleti e influencer: agli atleti viene richiesta visibilità e presenza social, anche quando gli esce poco spontanea e goffa; gli influencer, d’altronde, hanno in molti casi un livello piuttosto basso, non hanno nulla da dire e in molti casi sviliscono il lavoro altrui, e spesso senza essere nemmeno pagati. Alle aziende questa confusione fa solo bene, soprattutto alle più piccole, perché gli costa poco e spacciano risultati mediocri come grandi imprese. In generale c’è poca meritocrazia, e gli atleti pagano il costo di questo sistema.

Quale è stata la cosa più strana che ti SIA stata chiesta?

Che mi è stato chiesto di fare? Non mi viene in mente nulla di divertente anche se ti vedo sorridere mentre scrivi la domanda. La più frequente (vedete voi se considerarla strana) è lavorare gratis. Sembra che si aspettino tutti grandi favori, ma non sono quasi mai disposti a darti qualcosa in cambio, se non il materiale. La colpa naturalmente è di chi accetta una giacca in Gore-Tex come forma di pagamento, e a me purtroppo non accettano ancora le scarpe per pagare le bollette.

Di cosa ha bisogno un atleta professionista in questo periodo storico?

Ancora, non sono un atleta professionista, ma oggi come sempre, credo, le cose principali probabilmente sono il tempo e libertà mentale da dedicare all’allenamento — oltre a poter scegliere in autonomia i propri obiettivi. Ma d’altronde è quello di cui avremmo bisogno tutti, creativi, intellettuali, sportivi, e purtroppo nessuno ti paga ancora per fare quello che vuoi, qualunque sia il tuo mestiere.

Di cosa ha bisogno la montagna invece?

Di più semplicità. Lavorando nell’industria outdoor tendiamo a confondere il nostro mestiere con “la montagna”, e confondiamo l’importanza che ha per noi con l’importanza assoluta: in realtà sono cose molto diverse e spesso c’entrano poco l’una con l’altra.

Ti piacerebbe un giorno rivelare ai lettori la tua identità e farti portavoce di quanto hai scritto?

Lo farei anche subito, se non fosse che l’anonimato è il format dell’intervista ed è interessante che sia così. Ma vorrei aggiungere un’ultima cosa prima di chiudere: io ho fatto un tradizionale percorso umanistico, che prevede studiare, leggere determinati libri e scrivere, o comunque fare un’attività intellettuale o creativa. È quello che mi viene spontaneo fare ed è quello per cui ho studiato, e ricordo che si sono sempre scritti libri di alpinismo, si sono sempre scritti reportage, saggi e libri storici. Oggi l’industria outdoor ha completamente cancellato questa professione e l’ha compressa nelle figure dei copywriter e del giornalista (più spesso sedicente tale). Tuttavia, io non ho mai studiato comunicazione o marketing, e d’altronde non sono né iscritto all’albo dei giornalisti né ho mai studiato giornalismo; sono uno scrittore in quanto pratico l’attività della scrittura e vengo pagato per farlo, questo non fa di me Dante o Shakespeare, ma nemmeno un copywriter: non che una cosa sia meglio dell’altra ma, come tra atleti e influencer, sono attività diverse e la confusione, ancora una volta, favorisce solo chi dispensa il lavoro. Penso che la stessa cosa, in qualche modo, riguardi la fotografia. Lo trovo svilente per tutti.

Sapresti dare una possibile soluzione alle problematiche che hai EVIDENZIATO?

La domanda, il milione. Sì, la soluzione penso sia semplice: fare cose per il gusto di farle. Che non significa annullare il profitto, il lavoro è lavoro ed è giusto così, ma non avere secondi fini, essere limpidi e cercare di restituire quello che prendiamo. Far le cose per un motivo insomma, non sarebbe male.

Cos’ha questo mondo, quello outdoor, di diverso da tutto il resto che ti circonda?

Ha che tutto sommato non puoi ancora svegliarti una mattina e decidere che puoi scalare il 7c o che puoi sciare un canale al 40%, e non ci sono molte cose che ti possano aiutare quando hai un chiodo dieci metri sotto di te o altri cento chilometri da percorrere. La meritocrazia che impone la montagna non c’è in tutte le cose.