wadi rum.
in arabo significa letteralmente “valle della luna”, anche se dall’oblò dell’aereo si ha più la sensazione di partecipare al primo ammartaggio dell’umanità. lo percepisci dalla mancanza di un fiume gonfio e blu e dalla fortissima presenza della terra dallo spettro cromatico della lava, con sfumature dal rosso al bruno al nero cenere. eppure, una volta che cammino su quel suolo, ammiro meravigliato il candore della sabbia bianchissima e tanto fine da non percepirla al tatto.
l’unicità del wadi rum sta proprio nella sua natura selvaggia, nella complessità dei meccanismi della vita dei beduini e nella desolazione sulle cime dei torrioni di arenaria. purtroppo, come qualsiasi luogo esteticamente sublime, non manca la macabra influenza occidentale che nel corso degli anni si è tradotta in un villaggio tecnologico per simulare la vita su un altro pianta o in un tour “zero stress” con il culo poggiato su una jeep.
fortunatamente sono riuscito a fuggire da tutto questo. anche se per poco ho assaporato il vero spirito del wadi rum, il tutto assieme a un team geograficamente variegato e motivatissimo. assieme a me matteo faletti, matteo piccardi, claudio migliorini, alessandro beber, lisa angelini, mirco grasso e dimitri anghileri. accenti diversi sono il presupposto fondamentale per un viaggio interessante, sono quella risata in più a fine giornata per un detto sconosciuto e incomprensibile. il wadi rum è un paese povero, composto da 2000 abitanti ma in continua crescita per l’alto tasso di natalità. i bambini camminano scalzi e la sporcizia sulle strade è un problema prima culturale che ambientale, ma nessuno ovviamente sembra curarsene più di tanto dal momento che le priorità sono altre. ogni famiglia ha una jeep con la quale trasporta i turisti all’interno del deserto a velocità invidiabile al primo classificato della parigi dakar. i beduini che vivono fuori dal villaggio possiedono dromedari con i quali spostarsi o, più semplicemente, guadagnare qualche dinaro in più come attrazione sempre per noi stupidi turisti occidentali. quello che non manca mai è il sorriso che gli abitanti riservano a uno maccheronico “as-salamu alaykum”.
qualche millennio fa questa valle era attraversata da un fiume che ne avrebbe lasciato solo dei grossi cumuli, in questo caso le pareti da arrampicare, il nostro parco giochi. già all’inizio degli anni ’80 gli arrampicatori da tutto il mondo esplorarono parte di questo ampissimo deserto che si estende tra i confini dello stato di israele e l’arabia saudita.
il territorio è vasto e orientarsi nei canyon scavati dall’acqua e dal vento è complicato senza una guida locale. atayek è stato colui che non solo ci ha ospitato nella sua casa, ma che ci ha scarrozzato tra una parete e l’altra, orgoglioso di mostrarci i cavalli della sua nuova auto. atayek è nato e cresciuto in wadi rum. ora guadagna ospitando climbers. atayek è l’uomo da contattare nel caso in cui vorreste andare a scalare in giordania senza però perdere in qualità dell’esperienza. menù fisso in base a quello che offre la terra (e che comunque riserva delle piacevoli sorprese), un materasso impolverato sul quale appoggiarsi con il sacco a pelo e poco altro per abituarsi all’idea che per stare bene basta davvero poco. ho scoperto un ritmo di vita che mi ha quasi messo a disagio per la sua lentezza. eppure, in quel modo di vivere, ho riscoperto una parte di me stesso che credevo non esistesse più: la pace del tempo lento. provo una sensazione spiacevolmente piacevole quando la realtà mi viene sbattuta in faccia. considero un privilegio non aver visto le fotografie di un luogo, non averne neanche sentito parlare. alle volte lo faccio apposta: non cerco informazioni per poter vivere al meglio l’esperienza; impossibile alle volte per chi, come me, è vittima e complice dei social. guardare un’immagine su instagram infatti fa scaturire automaticamente il pregiudizio del luogo e l’annientamento della scoperta. se la curiosità è stata da sempre un’indole genetica dell’essere umano, per me sembra essersi tramutata in un esercizio, un’arte da affinare per non vivere nel superfluo. dio se è difficile. la curiosità sta nel sapere il meno possibile, nel riservarsi e nel regalarsi ignoranza. le maggiori alleate della curiosità sono la sensibilità e l’empatia, che costituiscono la quarta e la quinta dimensione della ricchezza interiore, quello che poi tecnicamente dovrebbe farti crescere. il breve viaggio in wadi rum è stata quindi la ricerca del mio tempo perduto e non solo un viaggio di amicizia e di scoperta. mi rendo conto, ora più che mai, che nonostante io faccia di tutto per astrarmi il più possibile dai meccanismi della stressante vita occidentale, ne sono incapace e mi ritrovo spesso a lamentarmi della mia vita caotica, senza un equilibrio, in sospensione. la soluzione sta lontana anni luce, come se mai ci potessi arrivare. la semplice immersione in un mondo e in un tempo diverso però mi ha aiutato a migliorare. è solo una questione di consapevolezza. la scalata, come nessun altro sport che io abbia mai avuto la fortuna di esercitare, è l’emblema della concentrazione sull’attimo presente, unico ed irripetibile. la scalata mi ha e mi aiuta tuttora a isolarmi dal superfluo, dall’inutile, nonostante dallo stesso lionel therray venisse definita proprio con il termine “la conquista dell’inutile”. la caratteristica introspettiva della scalata unita alla ricerca di un ambiente isolato è stata per me una boccata d’aria fresca, un rimettere le cose al proprio posto, un consiglio spassionato a climbers e non.