“don chisciotte sta cavalcando adagio in compagnia del fedele scudiero sancho panza, quando scorge in lontananza più di trenta mulini, che però scambia per giganti. don chisciotte dichiara a sancho panza la sua ferma decisione di assalirli e ucciderli tutti; così facendo si arricchirà con il bottino guadagnato per averli uccisi e renderà un servizio a dio, perché avrà tolto dalla faccia della terra una tale cattiva stirpe. sancho panza lo mette in guardia: quelli che vede davanti a sé non sono giganti ma mulini a vento, e ciò che sembrano le braccia sono le pale che girano per il vento. don chisciotte è però talmente convinto di ciò che crede di vedere che si lancia in sella al suo ronzinante. dà un colpo di lancia alla pala del primo mulino che si trova davanti, ma la pala roteando spezza la lancia e cavallo e cavaliere finiscono tramortiti a terra. sancho panza soccorre il suo padrone e gli torna a dire che era andato contro a dei mulini a vento e non contro giganti. don chisciotte lo zittisce e attribuisce la trasformazione dei giganti in mulini a vento a un incantesimo del mago frestone che gli è nemico”.
la lotta contro i mulini a vento: la lotta per le cause perse.
quante volte ho perso in principio, senza poterlo sapere. è la vita, è respiro, è battito.
è la metafora dei momenti bui dell’esistenza. alle volte decide per o contro di noi e, come vento, accompagna o tramortisce. è una lotta vana, come se di fatto non esistesse.
posso vincere io contro qualcosa che, di fatto, non esiste?
la depressione fa paura.
fa paura perché è invisibile, ma percettibile. la depressione è qualcosa che è e che non è; è contemporaneamente gigante e mulino a vento.
parlare di depressione fa paura.
nel mio mondo essere depressi non è ammesso. svilisce parlare di salute mentale alle volte. si viene etichettati immediatamente come “matti”, come se, quella di non stare bene, fosse una scelte. parlare di depressione è un gigante o un mulino a vento? è davvero così inutile parlare di salute mentale? io non so voi, ma a me non è mai stato insegnato a come “volermi bene”. ci sono arrivato un pò da solo.
la depressione è il regalo più grande che la vita mi abbia mai fatto.
ma faccio un passo indietro.
credo nella casualità delle cose, nel disordine; nel fatto che la realtà sia irrazionale. alcune di esse però avvengono con un ordine tale che solo noi, come singoli individui, siamo in grado di percepire. il caso è tutto e niente. se è vero che esso sceglie a caso, allora quel caso è di fatto un motivo.
l’arrampicata, la fotografia. due realtà talmente in simbiosi che sento esistere per un motivo.
arrampicare mi ha salvato e segnato la vita, per sempre. uno sport che, per me, non era uno sport. avevo un paio di reebook bianche che mariarosa, mia mamma, mi aveva raccomandato di tenere con cura. e la parete brulicava di scorpioni.
terapia d’urto, dicono. urto terapia, dico io.
la roccia incuteva dolore alle mani e paura al cuore, ma la novità di quel gesto mi rapiva, come l’amore per la persona sbagliata. dopo un’adolescenza spesa a fare altro, tipo rincorrere un pallone, ho scoperto un mondo di paura, fatica e dedizione. non ho avuto paura però a tuffarmici dentro con tutto me stesso. in più, anche se non c’entra un cazzo, esordire con un “mi piace scalare le montagne” con le ragazze funzionava (ditegli poco). arrampico ancora con gli amici con cui ho iniziato. sono uno dei punti fermi nella mia vita. sono quell’aroma senza il quale assaporerei la vita in maniera meno dolce.
inutile dire che le reebook bianche, invece, bianche lo sono rimaste per poco.
fotografare era una cosa che vedevo sempre fare a renzo, mio padre. come lui fotografavo quello che mi stava vicino, quello che mi interessava di più. a 15 anni erano gli alberi del giardino o i cuccioli della mia gatta musetta. quindici anni dopo sono la montagna, l’ambiente, le persone. i confini della fotografia si sono allargati da casa verso qualsiasi luogo o persona che invece mi faccia sentire a casa.
portare la macchina fotografica in parete è stata una delle cose più spontanee che abbia mai fatto, senza pensarci troppo su. fotografare dall’alto apriva una dimensione nuova, dove tutto sembrava leggero e spensierato, diverso da quello che vivevamo tutti noi stando con i piedi per terra. i miei amici ed io non ci sentivamo come gli altri. provavamo a spiegare alle persone cosa volesse dire per noi scalare, ma come risposta ricevevamo solamente occhi sparati al cielo. un giorno ci siamo messi il cuore in pace e abbiamo capito che eravamo diversi, anzi, che volevamo essere diversi; diversi dai nostri genitori, dai famigliari, dai conoscenti. io volevo essere diverso. ho trovato diversità e significato in quelle due cose lì, immediate e semplicissime, entrambe una sola questione di dita. quando ho iniziato a scattare mi piaceva da morire gelare l’istante del movimento, l’enorme sforzo fisico che si manifestava ai miei occhi sotto forma di tendini e muscoli, gioie e imprecazioni. ora scatto ancora tanto in montagna perché è una parte di me, ma mi lascio la libertà di fotografare sempre quello che più mi interessa, come quando ho iniziato.
ho scalato e fotografato, fotografato e scalato per diversi anni. con il fatto che fotografare si stesse tramutando senza che me ne accorgessi in una professione mi dava anche parecchia soddisfazione, tanto che i sogni si erano fatti grandi e la vita tanto leggera.
ero felice, e basta.
e poi sbam.
la depressione non suona mai il campanello e non bussa mai alla porta, non si annuncia mai. la depressione scardina silenziosamente la porta e poi la sfonda con una pedata, con tutto il telaio e le cerniere. non chiede permesso nella casa del pensiero e pretende comunque di essere ascoltata, di avere ragione. non fa distinzione di genere, di età, di classe sociale e via dicendo. di base non è controllabile, soprattutto nel momento in cui la si affronta per la prima volta. non si è mai pronti, davanti alla depressione.
le depressione è il soffio gelido su una candela, dove il buio prende il sopravvento. quel buio odora di caos, di abbandono, di morte. il cupo è incomprensibile.
non esiste un’età giusta per essere depressi. io avevo 24 anni, quando mi è stata diagnosticata. ricordo un grande peso nel petto e il cosmo nel cervello. fisicamente pieno di dolore ed emotivamente svuotato di ogni speranza. uno schiaffo, quello della depressione, che scombussola i proprio sensi per sempre. niente è più come prima.
è difficile dare un senso alla propria vita, da quel momento lì. la testa è una girandola sradicata dal terreno, uno strappo da quella che credevamo la realtà e che poi non torna più come prima.
per me i sintomi hanno avuto un ordine ben preciso: ansia, attacchi di panico, paranoia. un’incessante paura della morte mi aveva spento il cuore e il cervello.
dannati mulini, dannato vento, dannato cavallo. il mulino aveva spazzato e spezzato le mie passioni: arrampicare e fotografare. avevo vissuto la mia vita seguendo le mie regole, perseguendo la mia felicità e assaporando il significato di libertà che sentivo più mio. la vita aveva scelto per me quando ne avevo meno bisogno. e io avevo bisogno di aiuto.
il giorno in cui mi sono rivolto a una specialista, avrei voluto e dovuto essere altrove. la stanza era bianca, come il più classico dei cliché. in un angolo non riuscivo a spiegarmi la presenza di un lavandino pieno di fiori. ero imbottito di sostanze che mi facevano sentire all’aperto. il sorriso compassionevole, quasi materno della terapeuta, stonava con il mio riflesso stanco sul tavolo in vetro spesso. mi sono odiato tanto quel giorno, ma mai come quel giorno mi sono più odiato tanto. mi sono disprezzato così tanto da domandarmi: “perché esisto”?
2020, l’anno peggiore.
“perché esisto”?
svogliatamente apro gli occhi. guardo la fotografia della mamma che mi tiene in braccio e siamo entrambi sorridenti, come se la risposta a quella domanda fosse lì, appesa a quel muro bianco, sbiadito.
“l’amore”, mi dico.
non so chi abbia scattato quella fotografia, ma per me c’è sempre stato il papà; presente, ma invisibile. mi piace pensare che se esiste un motivo per cui io abbia iniziato a fotografare, quel motivo sia stato lui.
renzo, il mio papà, si è ammalato di cancro quando non sapevo cosa fossero né il cancro né tantomeno la depressione. il cancro se lo è portato via nel momento di maggior crisi sanitaria che la popolazione mondiale moderna abbia mai avuto modo di concepire. è morto in ospedale, solo come un cane. le sue ultime parole le ho viste in un video, in cui ci mandava un bacio e ci diceva che ci amava. la vita, con la morte, ha scelto per lui.
le nostre malattie, diverse, sono germogliate assieme. la mia depressione, invece, è morta con lui. ora, rimane solo un vuoto immenso da colmare, ma che non si colmerà mai.
dicevo all’inizio che la depressione è stato il regalo più grande che la vita mi abbia mai fatto. sapete perché lo dico? perché l’ho ricevuta in un’età che in cui avevo e ho ancora molto da raccogliere. ho raccolto il piacere di concentrarmi sul presente. in questo universo non siamo nulla: siamo insignificanti, ma non per questo siamo soli. il tempo è la risposta a tutto. esiste un tempo per ascoltare, ascoltarsi, fermarsi, leccarsi le ferite, soffrire, piangere, urlare. ed esiste anche un tempo per reagire e abituarsi a una nuova realtà, precaria. ma non è questo di base la vita, precaria?
accetto, temendo, la morte.
vivo, soffrendo, ancora più forte di prima.
sarò felice, e basta?
sinceramente, spero proprio di no.