tirarsi il collo per vincere una collanina in plastica. la differenza sta nel fatto che alle premiazioni delle gare ufficiali le persone controllano l'ora, il bus già acceso per scappare via il prima possibile, tutti aspettano che finisca presto. che due palle le premiazioni. "ringraziamo lo sponsor, il sindaco, i volontari, il patrocinio, e blah blah blah". nelle gare illegali non vedi l'ora che i vincitori vengano premiati per fare macello. e ci sono tutti ad applaudirli, ma proprio tutti. e tutti sono felicissimi per loro.
questo lo ha scritto paco una settimana dopo la conclusione del +cerimoniale+.
quando sarebbe stato e come si sarebbe svolto lo si sa sapeva già da tempo. le regole erano chiare e non serviva di certo un gruppo su whatsapp per sapere chi ci sarebbe o chi non ci sarebbe stato. se tu non ne eri informato è semplicemente perché non sei stato invitato. e se non sei stato invitato, stai tranquillo, c’è una ragione ben precisa (era già successo ad urma, ricordi?). forse perché sei troppo snob, forse perché parli a vanvera, forse perché inneggi allo stile minimal di krupicka (l’anton di una volta) quando invece avresti bisogno delle one one, forse perché avresti voluto esserci per tirartela, o forse, molto più semplicemente, è perché sei un pigro del cazzo che non ha voglia di farsi un centinaio di chilometri in macchina per correrne solo sette. si sette chilometri. il +cerimoniale+ è una gara di sette chilometri. come potevi saperlo non essendone stato invitato? probabilmente stavi cercando l’ultima garetta di fine stagione in una valle dispersa della sardegna per fare contenta anche l’irrefrenabile voglia di mare della moglie o forse perdevi tempo a informarti su un nuovo paio di solette antishock color vomito.
io ho scoperto in ritardo il perché sono stato invitato a urma e al +cerimoniale+. una volta paco mi ha detto che gli dei dell’olimpo della montagna mi hanno donato un’anima punk. all’inizio non capivo cosa intendesse. all’inizio pensavo cercasse di sfottermi. dopo il +cerimoniale+ invece ho capito. l’illuminazione.
essere punk vuol dire fregartene, o in francese “sbattertene”, nella maniera più disparata e disperata, che sia la società, il buon costume, il tuo vicino di casa o il cane del tuo vicino di casa. questo non vuol dire essere menefreghisti, sia chiaro. vuol dire accettare te stesso e quello che provi nei confronti del mondo, per le esperienze che fai, che hai fatto e che farai (se mai dovesse sbattertene qualcosa, chiaro). tu sei tu e fai quello che senti tuo. semplice, chiaro. vivi al tuo meglio. il punk è mal visto: è un piccolo emarginato. probabilmente un punk va periodicamente da uno psicoterapeuta per imparare uno strumento di contatto con la società che lui stesso detesta e dalla quale non si sente minimamente rappresentato. al +cerimoniale+ non c’era un esercito di creste e borchie, ma un’armata che indossava pantaloncini corti e magliette in cotone organico.
quel giorno il sole della pianura investiva gli edifici, che a loro volta si proiettavano in ombre nette e contrastate sull’asfalto perfettamente liscio. c’era qualche pigna qua e la che rovinano la sensazione di perfetta aderenza al suolo. era un cric croc davvero fastidioso. c’è gente che ha rischiato di slogarsi le caviglie per molto meno.
l’urma army è quasi tutta al completo. mancano solo albrisi, gio, luchino, il vezz, filu e lo spagnolo. forse qualcun altro di cui non ricordo la faccia. il tenente mirel sta urlando numeri a caso, mentre il vezza consegna cibo vegano. tutta roba che ha scelto paco, il rabdomante della lenticchia biologica. quel mucchio di persone sembra una mandria di cavalli da corsa. lo capisci guardando quei polpacci gonfi e i tibiali sporgenti. le casse toraciche sono pronte a rimbombare tra uno sputo di sangue e l’altro.
tutti si avvicinano al tappeto di pettorali, un vero e proprio cimitero di reliquie provenienti da tutto il mondo, fosse da una lut, dall’utmb o dalla western state. infatti tutti devono lasciare un pettorale come pegno, un gesto che viene ricompensato dal sorriso a 32 denti del coach. un’arcata dentale brillante e di tutto rispetto. ci sono un sacco di leggende sul coach e la maggior parte di esser veritiere.
comunque il coach è il coach: è il generale della setta.
il tempo di un veloce riscaldamento e siamo tutti sulla linea di partenza. non c’è tempo da perdere. c’è un grande striscione nero con la scritta “unghie rotte mani aperte”. tutti sono sulla linea di partenza. tutti sono qui per correre, mica per scambiarsi ricette sulle polpette. oggi corre anche paco. neanche il tempo di un discorso strappa lacrime alla “save private ryan” che è già in testa e spinge come un matto.
tutti sono dei razzi, ma io parto tranquillo. in pianura vado abbastanza bene, ma qui c’è gente forte, mica pizza e fichi. corrono senza mai calare il ritmo. un passo dopo l’altro. per sette chilometri.
sette chilometri sono la distanza necessaria non solo per sputare l’anima che abbiamo in corpo, ma per intraprendere un cammino spirituale. volete sapere in che modo? provate a stare dietro al coach. provate a mordergli gli stinchi. provate a farlo innervosire. siamo tutti al +cerimoniale+ per divertirci, certo. ma il coach non viene mica al +cerimoniale+ per farsi prendere per il culo da una ragazzo della periferia di trento quale sono io. io questo lo so e inizio quasi a divertirmi. correre in pianura è come pestare l’uva: se pesti bene vai avanti bene e il risultato è buono. il coach l’ho superato un paio di volte ma sento il suo fiato da cavallo ligure sul collo mentre a me non rimano altro che la bile che mi scende dalla bocca. mi supera e taglia il traguardo prima di me. è sorpreso.
“matte ma che cazzo avevi in corpo”? mi chiede.
anche io sono sorpreso.
“non lo so coach, ho provato a starti dietro”. gli rispondo.
quasi ho battuto il coach, quel giorno.
alla fine si è trattato di correre per una collana di plastica. a me le collane hanno sempre fatto paura perché mia mamma mi ha sempre detto che ci si può impiccare nel sonno con quegli affari. forse, a ben pensarci, quel giorno si è corso per più di una collana di plastica.
forse si è corso per stare in compagnia o per soffrire da soli, in silenzio. forse si è corso per credere in qualcosa o perché forse non si ha nulla in cui credere. forse si è trattato di correre verso qualcosa o qualcuno o forse solamente di fuggire da tutto.